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Conosco e frequento Giorgio Celiberti ormai da circa vent’anni, e non mi frenasse la voglia di parlare della sua arte, che mi entusiasma, credo non mi basterebbe un libro a raccontare gli aneddoti di cui è intessuta la storia della nostra amicizia, e raccontare della sua allegria, delle sue impennate umorali del suo modo di essere, in una parola, delizioso e insostituibile. Perché Giorgio oltre a una indiscussa, e ormai quasi ovvia, grandezza d’artista, ne possiede un’altra, senza dubbio oggi più rara: quella di essere un uomo profondamente e avidamente radicato nella vita, un uomo, ancora, che ha sortito dal destino la difficile arte di saper capire chi gli sta intorno con profondità e discrezione, di essere, per tutti, fondamentalmente un amico. Il suo studio è, anche per questo, un porto di mare: tra getti vaganti, quadri e sculture in gestazione, pentole di colori e di pennelli, tele ammucchiate e capovolte, vi si incontra gente ad ogni ora del giorno, la più disparata: dal grande critico di passaggio, al poeta o allo scrittore locale, dal giocatore di calcio – Giorgio è sportivissimo – al pittore che vuole imparare il mestiere, dall’uomo d’affari a quello della strada. Celiberti, tutti sa intrattenere con una cordialità e una gentilezza che sono prova palpabile d’uno stato perenne di grazia. Avvolte, vedendolo lavorare, correre intorno, agitarsi, guardare ovunque con i suoi mobilissimi occhi chiari nel viso barbuto da Cristo medievale viene spontaneo di chiederci dove trovi la forza fisica per portare a compimento tutto quello che fa: credo comunque che la spiegazione sia semplicissima, credo cioè che la vitalità divorante, l’inquietudine, l’ansia di cogliere quanto più dalla vita, trovino in lui appagamento solo nel lavoro, solo nella realizzazione di se stesso come uomo e come artista. Basta; veniamo, chè mi par l’ora, alle sue opere.
Dopo una serie di stupendi quadri in rilievo “I fossili” (uccelli, fiori, farfalle), dopo le “Figure archeologiche”, fantastiche di muri sbrecciati e dilavati dal tempo; dopo i “Corvi” emblemi di dirompente aggressività, di naturale violenza, ma anche di sconfitta, Giorgio par tutto preso dalla scultura. Non è una novità: egli ne ha sempre fatta (e che sono, se non sculture, in fondo, i suoi quadri in rilievo, i suoi quadri affresco?), è sempre stato – e forse soprattutto – uno scultore. Ciò che mi pare nuovo in assoluto è, invece, il suo modo di “trattare” la materia, di plasmarla. La sente come viva, come fatta di carne e di sangue, e, come tale, l’aggredisce: impasta gesso, tela, fili di ferro, cartapesta e creta con una gestualità quasi frenetica, comunque febbrili – la stessa che usa per la pittura – avendo davanti agli occhi l’essere (animale o uomo) a cui vuol dar vita non in “posa”, ma nell’atto stesso del suo vivere, sicchè, nei risultati, più che i volumi e le masse, si nota, quasi vi fosse stato imprigionato, un movimento carico d’una intensità vitalistica e sentimentale che raramente gli scultori hanno saputo raggiungere.
Giorgio, in altre parole, sa fermare nella creta o nel materiale che sceglie di volta in volta l’attimo fuggente di vita, lo scatto interiore che determina l’essere esistente, non per riprodurlo, ma per rifarlo dall’interno, oserei dire per partorirlo e lasciarlo muovere poi per la sua strada così com’è, carico di mistero, proprio come tutti gli esseri del mondo. Ogni sua scultura diventa così frutto succoso di grazia. Si veda, per esempio, il grande cavallo abbattuto, uno dei suoi capolavori: c’è nella torsione del dorso, nell’annaspare delle zampe che la bestia contorce nel tentativo di risollevarsi, una forza plastica (raggiunta con i mezzi che s’è detto) che quasi annulla la pesantezza per fissarsi subito in un sentimento aleggiante di sconfitta nettamente percepibile, anche dall’osservatore meno smaliziato.
Vorrei dire a questo punto, e anche per essere più chiaro, che con Celiberti, forse per la prima volta in Italia dopo Medardo Rosso, si ha un’osmosi perfetta tra lo specifico della pittura e quello della scultura, un risultato davvero invidiabile e sorprendente che dimostra la raggiunta maturità espressiva di questo nostro artista. I gatti in terracotta, invece, appartengono all’aspetto giocoso e suadente; sono tutti diversi, tutti colti in un attimo del loro esistere, dei capolavori in cui colore massa e movimento si fondano in una unità che è poco definire rara e che fa oggi il Celiberti uno degli artisti più vivi e problematici che operino sulla scena italiana. Cavalli, gatti, corvi, costituiscono il momento di riflessione su un mondo di personale mitologia, sono i “mandàla” a cui Giorgio affida, si direbbe, le proprie giornate i “numi tutelari” che tengono il più possibile lontani i momenti di grigiore (e dati i tempi!) di paura.
Accanto ad essi, quasi per un allargarsi dell’orizzonte della riflessione sui depositi coscenziali s’impongono oggi, più inquietanti, “le tavole delle leggi”, gli “alberi”, le “stele”, i “labirinti”. Costituiscono i reperti archeologici di un mondo più vasto e più lontano, non investono il campo del racconto, per quanto oggettivo, autobiografico, ma, nel loro proporsi come “segni”, come tracce di elementi umani e naturali “scoperti quasi per caso nella pietra”, si fanno archeologia, di tutti, si caricano di un mistero che è esso stesso racconto. E’ il mistero del segno che si fa significato: uno dei problemi che affascinano Giorgio fin dai tempi delle grandi pitture dei bambini di Terezin (alcune delle quali il lettore potrà ammirare nella mostra, visitabile fino a tutto novembre, al Centro Friulano Arti Plastiche) del segno che si imprime nella mente di chi guarda e ne scalda il cuore, ne spinge la mente a ricercare in sé, nella propria storia, il senso di ciò che l’artista propone. E le possibili letture “delle tavole e delle stele” di Celiberti sono tante quanti sono i leggenti. Nel loro misterioso ergersi contro il cielo, sezioni di pietre trovate” là dove è passato l’uomo e ha lasciato orme della sua sofferenza e delle sue gioie, possono costituire, viste insieme, un “parco, il sogno della città. E’ così che a me piace leggerle, immagini di vita essenziale nel cuore di essa (la capitale del Friuli ha offerto a Celiberti e alle sue opere, per tutto l’86 gli spazi del Castello e di piazza Libertà), immerse cioè nel cuore più civile di Udine e farsene emblemi.

Amedeo Giacomini - 1986

immerse cioè nel cuore più civile di Udine e farsene emblemi.

Amedeo Giacomini - 1986

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